Poi uno cresce. Magari non diventa grande ma comincia a invecchiare. E scopre mondi nuovi, nuove musiche. E per un po’ – finché è ancora piccolo e non sa che aggiungere è meglio che mettere al posto di – i dischi che amavi prima, la musica che riempiva le tue giornate ti sembrano roba vecchia e anche, diciamolo, un po’ vuota.
Così prima ho scoperto la musica “classica”, la musica “colta”, con innamoramenti successivi per quella medievale, poi quella rinascimentale, poi la folgorazione barocca, poi gli universi Bach, Haendel, Mozart. Poi, poi, poi… E allora ho venduto i miei dischi rock, pop, folk. Agli amici e la domenica sotto il ponte di Porta Portese.
Poi, dopo il periodo “classico”, sono arrivato al jazz. E il jazz è tante cose ma soprattutto per me è questo autore e questo disco.
Che domenica, quella domenica 25 giugno 1961, quando il trio di Bill Evans (piano) Scott Lafaro (contrabbasso) Paul Motian (batteria) suonò cinque set, due nel pomeriggio e tre nello spettacolo notturno. Da quella giornata furono tratti due lp. Io ho conosciuto per primo il secondo, appunto Waltz for Debby. In realtà il primo si intitolava proprio Sunday at the Village Vanguard. In seguito uscirà un cofanetto in tre cd con tutte le incisioni di quella giornata magica (che ovviamente ho comprato, ma che con tutte le false partenze e gli ammennicoli vari delle raccolte complete non ha la perfezione dei dischi singoli).
Il trio è la formazione perfetta del jazz, il trio con il piano ovviamente. Per tanti anni basso e batteria si sono limitati a fare la ritmica ai virtuosismi del pianista. Con Evans si cambia musica. Evans, Lafaro e Motian sono tre solisti che interagiscono ai limiti (e oltre, se possibile) della perfezione. Tre musicisti immensi ed altruisti, capaci di un interplay mai più sentito (almeno da me) in un’alchimia che ha dell’incredibile.
Ma come tutte le cose troppo belle è durata poco più di un attimo. Pochi giorni dopo, all’alba del 6 luglio, tornando a New York dopo essere stato a trovare la madre, Lafaro perdeva la vita in un incidente d’auto, schiantandosi contro un albero. Aveva 25 anni.
Bille Evans non suonò in pubblico per un anno. E non trovò mai più un contrabassista come Lafaro.
Quella sera i tre eseguirono a più riprese tredici pezzi, tra cui quel Waltz for Debby, composizione originale di Evans che per me è, se non la più bella, una delle più belle ballad che siano mai state fatte. Tra i pezzi suonati quella sera nell’atmosfera fumosa dello scantinato del Village Vanguard, mentre la gente beveva e chiacchierava sottovoce, c’è anche Porgy, dal musical Porgy e Bess. Racconta Adam Gopnik che dopo quella sera Evans ha suonato tantissime volte quel pezzo, ma quasi solo da solista. La spiegazione, secondo Paul Motian, è in una frase che Evans disse mentre ascoltavano i nastri di quella sera per preparare il disco: “Ascolta il basso di Scott – ripeteva il pianista –. È come un organo. Suona così grande. È come un organo. Non sentirò più qualcosa così“. E in effetti nessuno ha più sentito qualcosa così, se non mettendo sul piatto il disco. E Bill Evans quel pezzo, se non poteva avere il basso/organo di Scott Lafaro, la “giovane meraviglia bianca”, doveva suonarselo da solo, magari facendosi accompagnare nella mente dalle note del suo per sempre giovane amico.

