Nel corridoio della clinica dove faccio la preospedalizzazione per il prossimo intervento di sostituzione della mia protesi all’anca, nel lungo corridoio al quarto piano, siamo circa una trentina di persone. Nonostante sia arrivato all’alba delle otto meno cinque, sono il n. 23.
È un’ottima occasione per mettere in pratica il detto che (forse apocrifamente) sono solito attribuire a mio nonno Enrico, il vero Enrico Galantini, il vecchio saggio che pare dicesse che quando sei paziente, devi essere paziente.
Per il prelievo si fa in fretta, un buco nel braccio, quattro-cinque provette e via. Secondo step: le radiografie. Si scende al piano terra e anche qui è una cosa veloce (mai fatto così in fretta in vita mia, sono ammirato). Risalgo al quarto piano ma la fila per l’elettrocardiogramma è lunga e ne approfitto per riscendere al bar: un caffè (buono) e un cornetto che solo la fame mi fa sembrare altrettale. L’ecg va via anch’esso “of course” e quasi penso di essere all’ospedale di Brunico, non fosse per i tanti accenti campani intorno a me (pare che i medici di base napoletani mandino qui i loro pazienti, perché, mi dice un signore, “negli ospedali napoletani entri con i tuoi piedi, ma poi…” e lo sguardo verso il soffitto dice più di tante parole).
Anche con la cardiologa nessun intoppo. Ho portato tutta la documentazione giusta e la visita vera e propria va via veloce ed efficace. Sono quasi abile e arruolato, manca l’anestesista. Pare che arrivi alle undici, manca una decina di minuti. Forse esco prima di pranzo.
La signora prima di me (il numero 22) è di Pianura, avrà un’ottantina d’anni, parla male del figlio che l’accompagna, e si deve fare una protesi al ginocchio. Si chiacchiera del più e del meno, hanno un cane Labrador che mangia solo carne arrosto fatta a bocconcini e costa un occhio della testa (provo a dire che forse l’hanno abituato male ma le mie argomentazioni non fanno breccia nelle convinzioni radicate della signora). Che quando poi si arriva a parlare di politica (giuro che non sono stato io a cominciare) le convinzioni della signora (con figlio, autotrasportatore, a rimorchio) sono per “il grande Berlusconi”, che “a noi la sua vita privata non ci interessa”, che è “uno che s’è fatto da solo, da povero che era”, non senza qualche elogio per Mussolini via parlando, e con me che cerco disperatamente il modo di dileguarmi. Finalmente mi chiamano in segreteria per delle comunicazioni sulla convenzione Casagit e riesco a cambiare aria.
Torno ma dall’anestesista ancora nessuna notizia. Siamo tornati nel Centro Italia. Finisco, per ultimo, intorno all’una. Si torna a casa.
PS Oggi, chissà perché, non ho avuto incubi. Chissà, forse anche questa volta sopravviverò. Forse non ci lascerò i zampetti, come diceva mamma.