Scritto per RadioArticolo1.
È bastato un giorno o poco più per smentire lo stereotipo che già aveva preso piede dopo la riunione di Palazzo Chigi del 20 marzo, quello che voleva di nuovo la Cgil isolata mentre tutte le altre parti sociali plaudevano alla riforma del lavoro del governo Monti. Uno stereotipo, va detto, aiutato dal repentino cambiamento di rotta di chi, come Uil e Ugl, fino alla vigilia aveva usato toni duri contro i diktat e le soluzioni del governo tecnico, salvo poi dissociarsi da se stessi in un attimo davanti a pseudo cambiamenti o per senso di responsabilità. Mentre la Cisl e il suo segretario generale, paghi di essere nella stanza dei bottoni (e senza accorgersi che quei bottoni erano scollegati e che quelli veri erano in un’altra stanza), esprimevano giudizi positivi sulla riforma affermando che sull’articolo 18 in fondo non cambiava niente.
È bastato un giorno, dicevamo. Un giorno contraddistinto dai tantissimi no che venivano dalle fabbriche e dai posti di lavoro in tutta Italia. Dalle prese di posizione di molti giuslavoristi che certificavano che con quelle modifiche l’articolo 18 veniva di fatto, se non abolito, quantomeno depotenziato in modo estremo nel suo effetto di deterrenza (quello per cui appunto era stato pensato 43 anni fa). Dall’allarme della Cei che, attraverso monsignor Bregantin, ammoniva che il lavoro non è merce e lamentava l’esclusione della Cgil (anche se il giorno dopo i vertici dei vescovi italiani annacquavano un po’ la durezza di quelle dichiarazioni). Dalla dissociazione del giornale – la Repubblica – che si era quasi trasformato in organo di partito del governo Monti. Dalla rabbia espressa dalla base del Partito democratico che induceva lo stesso leader Bersani a prese di posizione molto dure (nei limiti del suo carattere, ovviamente, e della situazione oggettivamente assai complicata in cui si trova a muoversi) contro il governo, esprimendosi pubblicamente per una modifica pesante della norma prevista per i licenziamenti economici. Dall’allarme dello stesso presidente della Repubblica che esortava il governo a non forzare ulteriormente con un decreto una situazione che sta minando pesantemente la coesione sociale cui giustamente tanto tiene.
E così nell’incontro di ieri tra parti sociali e governo la Cgil è stata meno sola. La Ugl ha fatto marcia indietro pubblicamente. La Uil per adesso si defila, forse in attesa di vedere che cosa succede. Mentre Bonanni, senza fare un grammo di autocritica (ma siamo davvero sicuri che Monti avrebbe chiuso in quel modo l’altro giorno se tutti i sindacati avessero dimostrato la fermezza della Cgil nel difendere un principio, se non di civiltà, almeno di buonsenso?). Per il presidente del Consiglio oggi non è facile, dopo aver dichiarato il 21 che la partita dell’articolo 18 era conclusa, fare marcia indietro (e infatti dice genericamente che vedrà di fare in modo che di questa nuova norma non si abusi). Anche se su tanti altri fronti di marce indietro ne ha fatte tante (tassisti e banche docent), su questo si è speso molto, ha creato tante aspettative che adesso oggettivamente è complicato per lui e per il suo governo cambiare quella brutta norma. Ma il pressing sta montando e in Parlamento, quando la riforma arriverà di fronte all’“interlocutore naturale del governo”, i rappresentanti eletti (si fa per dire) dal popolo dovranno fare i conti, oltre che con le loro coscienze, con il dissenso che cresce nel paese. Monti può ignorarlo (anche se – ripetiamo – non ignora tassisti e banche). I partiti, specie quelli di sinistra, no.


