Scritto per RadioArticolo1.
Prima non c’era tempo. La manovra – la fase 1, quella del rigore, a dire il vero senza troppa equità – andava fatta di corsa per rispondere all’urgenza della sfiducia dei mercati e quindi non era possibile parlarne con i sindacati se non di domenica sera, in uno spazio di tempo ricavato tra un impegno e l’altro della compagine di governo. Ma dopo, si era anche detto, sulle materie più proprie dei sindacati, come ad esempio il mercato del lavoro, le decisioni sarebbero state prese con un rapporto più approfondito con le confederazioni.
Anche adesso però – che è il momento del “dopo”, delle misure per la crescita – il tempo è sempre poco: incombe infatti l’appuntamento dei ministri dell’Economia dell’eurogruppo il 23 gennaio, al quale Monti vorrebbe arrivare con decisioni già ufficiali. Per cui il governo prevede di incontrare separatamente, una per una, le organizzazioni sindacali e quelle imprenditoriali a partire dal 9 gennaio, per poi decidere in beata solitudine come e cosa cambiare nel mercato del lavoro. E ovviamente girano varie ipotesi su quello che ha già in mente il ministro Fornero, che su queste materie ha la responsabilità istituzionale.
Ora, che spetti al governo decidere è una verità addirittura lapalissiana. Sta lì per questo. (Oddio, la decisione finale spetterebbe al Parlamento che le leggi – se non farle, che ormai da anni è cosa fuori moda – deve almeno approvarle. Ma che comunque, almeno fino a che lo spread resta così alto, alla fine dirà sempre di sì più o meno a tutto. E dunque Monti ha un ampio margine di manovra).
Ma pure se si ritiene che le vecchie pratiche concertative con i tavoli a 35 nel salone verde di Palazzo Chigi siano ricordi obsoleti di un passato che va cancellato, non si può pensare che bastino incontri sbrigativi con le singole organizzazioni per comporre il quadro di quello che in Europa si chiama dialogo sociale. Da come lo si va presentando, più che un dialogo sociale sembra una presa in giro, una sorta di atto dovuto dopo il quale ciascuno fa quello che crede (salvo che al sindacato si chiede, ovviamente, più “senso di responsabilità”, confondendo evidentemente responsabilità con acquiescenza).
Alla fine, è evidente, più delle forme – che comunque sono anch’esse sostanza e di solito sono la spia delle volontà vere – contano gli atti concreti. E su quelli si dovrà ragionare. Resta il fatto che nell’attesa (perché il tempo è poco, è vero, ma chissà perché si aspetta l’ultimo momento per iniziare il “dialogo”…) fioriscono le interpretazioni e gli scoop dei vari media. E questo certamente non aiuta. C’è ci dice che prevarrà nel governo la proposta Ichino, e quindi addio articolo 18 per i nuovi assunti. C’è chi ipotizza invece che il governo sceglierà altre strade, disboscando davvero la giungla delle attuali quaranta e più forme d’impiego consentite, con un contratto “prevalente” e relativo lungo periodo di prova (fino a tre anni), lasciando stare qualsiasi tentazione di mettere mano all’articolo 18 e di inasprire così il clima sociale già tutt’altro che positivo.
Personalmente ci auguriamo davvero che si evitino tensioni più che inutili dannose. Non possiamo non sottolineare, però, che un atteggiamento meno solipsistico da parte del governo dei professori aiuterebbe. Nella forma, dando il giusto valore al concetto stesso di dialogo con le parti sociali. E nella sostanza, coinvolgendole maggiormente nella costruzione di riforme essenziali per il paese, riducendo in questo modo la distanza che spesso esiste tra le aule universitarie e la realtà che il paese vive.
